martedì 17 dicembre 2013

COME BACK



C'era la piazza, con le foglie gialle dai bordi seghettati che rotolavano leggere sospinte dal vento, in vortici che sembravano accogliere l'autunno e portarselo verso un punto preciso del mondo. E c'era la polvere, caduta dai muri scrostati in sabbia grossa e fine che si accumulava sui bordi o si gettava dai marciapiedi. E c'erano le nuvole, sfilacciate e slanciate in direzione contraria al vento, che rendeva intermittente l'azzurro del cielo. E la gente. C'era anche la gente, che stretta nelle giacche si muoveva veloce verso tutte le direzioni, un formicaio infinito in piena attività. C'era anche Mario, col banco colmo di frutti di stagione che rideva sguaiato, ammiccando alle signore con le borse della spesa. E le mamme coi bambini, le biciclette rosse a tre ruote che pestavano il granito annerito dallo smog. E l'odore dei croissant che arrivava come ogni mattina dalla pasticceria. E i musicisti che entravano a teatro per le prove. C'era una bandiera svolazzante strappata sui bordi e graffiti statici che parlavano di urbane maledizioni. C'era un parroco arrabbiato che sgridava i bambini sul piazzale e due ragazzi con lo skateboard che disegnavano traiettorie tra piccioni svolazzanti che un attimo dopo tornavano a beccare qualche briciola. C'era l'aria salmastra, quell'odore inconfondibile che ha il mare di Cagliari anche quando si fa umidità e ti si attacca addosso. E c'era un tempo lento che litigava con il frenetico movimento intorno, quello di mille anni di storia incrostata sui bastioni di calcare che raccontava l'arrivo di genti venute da lontano.

Anche Elisa, ferma in mezzo alla piazza, arrivava da lontano. Di nuovo in Sardegna, ripeteva mentalmente. Sorrideva. E si sentiva libera, pensando che si appartiene ai luoghi più di quanto s'immagini.




MAM

lunedì 16 dicembre 2013

ALTHAN



Quell'estate fu più calda e afosa del solito. Nella piazza del paese in pochi si sedevano sul basamento del monumento dedicato ad Antonio Gramsci, per quanto fosse in ombra grazie al carrubo secolare, che aveva dato conforto a generazioni di abitanti del piccolo borgo.

Giovanni Salis trascorse quell'estate con poche chiacchiere, sperando che il caldo cedesse prima o poi il posto all'autunno che tardava ad arrivare.

Solo da qualche mese, dopo la morte della moglie, non aveva nessuno scopo evidente nella vita. Aveva 60 anni ma ne dimostrava 80, non tanto fisicamente quanto nello spirito, fiaccato dalla malattia della moglie e dal dolore di una solitudine che non riusciva a colmare con nessun interesse che fino ad allora aveva avuto. Chiuse il mulino nel quale aveva speso 40 anni della sua vita, smise di curare la vigna, di andare per boschi, di occuparsi della casa.

Non aveva mai frequentato la piazza né mai aveva avuto relazioni di amicizia con gli uomini del paese. La moglie, il lavoro e la vita domestica avevano riempito ogni istante della sua esistenza fino a quella tragica perdita.

Quella mattina, solo sotto il carrubo, pensava alle parole della sorella maggiore che lo aveva rimproverato. "Chi sighisi aicci ti moris tui puru!".

Non aveva torto Adelina. Lui la stava aspettando davvero, la morte. Sperava in una malattia, in un evento catastrofico per essere spazzato via dalla solitudine e dal dolore. Quel tempo infausto che scorreva lento era per lui solo un tormento. La lenta agonia interiore scorreva come i giorni, tutti ugualmente coincidenti nei minuti e nelle ore, tutti protesi nell'attesa di quell'ultimo giorno che prima o poi avrebbe reso giustizia alla sua cattiva sorte.

Ma quella mattina un uomo sedette al suo fianco. Un forestiero con un capello di feltro verde muschio, una giacca dai bottoni dorati e delle scarpe con una punta rinforzata da una lamina lucida di metallo.

Chiese a Giovanni dove poter chiedere l'autorizzazione per il suo spettacolo. Indicò sollevando il mento un furgone color amaranto ricoperto di scritte gialle che raccontavano chi fosse: Il trasformista Althan, l'uomo dalle 1000 vite. Giovanni si offrì di accompagnarlo sino al Municipio. E lo lasciò lì, davanti al portone, suggerendo di parlare con il segretario comunale.

Quella stessa sera, la curiosità vinse la pigrizia e Giovanni fece il giro del paese per trovare l'artista. Nella piccola piazzetta davanti alle scuole elementari un capannello di persone osservava con attenzione il forestiero. Un fuoco illuminava il viso dell'uomo che si cambiava d'abito in pochi secondi, interpretando ora un ballerino, ora un sacerdote, un medico o un domatore di leoni. Giovanni ammaliato dallo spettacolo sorrideva incantato. Alcune ore dopo si offrì di aiutarlo a smontare la semplice scenografia che aveva allestito. Althan chiese a Giovanni della sua vita e Giovanni raccontò della sua solitudine, dei giorni sempre uguali vissuti in quel piccolo centro, della sua sconfinata paura per il tempo che ancora gli restava da vivere.

Althan si fermò in paese, cenò con Giovanni.

Cosa accadde esattamente quella notte fu difficile ricostruirlo. La mattina seguente alla sorella di Giovanni spettò l'ingrato compito di vestire il corpo del fratello trovato senza vita nel letto. Una morte naturale, ma inspiegabile. Di Althan si seppe che, negli spettacoli proposti nei paesi limitrofi, ai tanti costumi di scena si era aggiunto anche quello di un mugnaio.

MAM

DELL' ESSERE POSSIBILITA'



Paradossale è la condizione umana. Esistere significa «poter scegliere»; anzi, essere possibilità. Ma ciò non costituisce la ricchezza, bensí la miseria dell'uomo. La sua libertà di scelta non rappresenta la sua grandezza, ma il suo permanente dramma. Infatti egli si trova sempre di fronte all'alternativa di una «possibilità che sí» e di una «possibilità che no» senza possedere alcun criterio di scelta. E brancola nel buio, in una posizione instabile, nella permanente indecisione, senza riuscire ad orientare la propria vita, intenzionalmente, in un senso o nell'altro.

Søren Aabye Kierkegaard


venerdì 13 dicembre 2013

LA MATTA DEL MOLO



Camminava sul molo Ichnusa. Come ogni giorno da circa 20 anni ormai. Il cielo terso, l’aria fresca e pungente. Era metà novembre e lei andava ancora in giro senza calze. Un maglione nero infeltrito e un abito leggero al ginocchio. Un paio di ballerine nere, consumate da tanto andare.
L’ultima volta che lo vide era proprio lì, al molo Ichnusa. Un posto poco frequentato, lontano da occhi indiscreti perché lui non era libero: a casa aveva moglie e figli. Si erano conosciuti tre mesi prima. Si erano incontrati per caso in un caffè nella Via Roma. Lei era andata a salutare al porto dei parenti di Roma che erano arrivati in città con la Tirrenia, lui in pausa caffè dal lavoro. Entrambi, seduti ai rispettivi tavoli, osservavano il variegato mondo che animava i portici a quell’ora del mattino: qualche turista tedesco in maglietta e sandali, avventori del caffè intenti a leggere le notizie dell’Unione Sarda e della Gazzetta dello Sport, mendicanti che intervallavano lo spazio utile cercando di conquistare l’altrui benevolenza con sorrisi e cartelli di cartone recanti frasi ad effetto. Lo sguardo di lei ad un tratto si posò su un uomo. Rimase colpita dalla sua eleganza: era raro vedere in città persone vestite con tanta cura. Non aveva niente che non andasse: i capelli corti e ben pettinati, la camicia bianca impeccabile. Una cravatta a righe grigie che riprendeva il colore esatto dell’abito. Scarpe lucidissime e, ci avrebbe giurato, calze lunghe e non calzini. Lui si accorse di tanta curiosità. E bastò un attimo per capire che due occhi come quelli difficilmente si potevano dimenticare. Per questo, forse, si avvicinò con la scusa di chiederle se si fossero già incontrati in altre occasioni, perchè il suo viso, disse, aveva qualcosa di familiare.
Si ritrovarono il giorno dopo, e, a seguire per tre settimane, mezzora ogni mattina, fino al giorno della passeggiata al molo Ichnusa. Lì si baciarono per la prima volta e lì si incontrarono ancora per altri due mesi, ogni giorno fino a quell’ultima volta.
Si raccontarono le rispettive vite. Lui impiegato alla Banca d’Italia, lei sarta per un noto negozio cittadino. Lui sposato, una moglie più grande di lui, un matrimonio combinato con altra famiglia borghese della città. Due figli piccoli e una carriera in ascesa. Lei sola. Dopo la morte della madre si ritrovava a far da zia a un numero incalcolabile di nipotini, ma non aveva ancora conosciuto un uomo e mai era stata fidanzata con qualcuno: un po’ per quei genitori all’antica, severi nella morale sessuale, un po’ per la sua innata timidezza che non le facilitava gli incontri. Cuciva da sempre, amava leggere e ballare..
Gabriella, questo il suo nome. Lui Francesco Maria. Due vite lontane come pianeti di due galassie differenti.
Nessuno dei due osò mai andare oltre i baci. Lei per pudore soprattutto, ma anche perché non sapeva neppure come tradurre in gesti quella passione che pure sentiva crescere ogni giorno di più. Lui per delicatezza, come se avesse avuto paura di sciupare una cosa bella ma fragile e perchè non aveva idea di come lei avrebbe potuto reagire.
Il giorno in cui lui non si presentò al molo Ichnusa Gabriella non si preoccupò. Pensò ad un problema di lavoro, ad una malattia improvvisa, a qualche impegno inatteso e improcrastinabile.
E così nei giorni successivi. Contava i giorni immaginando le malattie più assurde e i tempi di guarigione: un’influenza 4 giorni, con eventuali complicazioni una settimana. Le malattie col passare dei giorni divenivano sempre più gravi: un attacco di appendicite, due settimane. Una broncopolmonite, un mese.
Passarono i giorni, a volte lenti, a volte incredibilmente veloci. Non pensò mai di non rivederlo ancora, per quanto si erano detti, per gli sguardi, per come era nata la storia e per le cose che si erano promessi in quei tre mesi.
In quei lunghi vent’anni a Gabriella non mancarono i corteggiatori. Tutti o quasi sembravano anche intenzionati a sposarla, a costruire con lei una famiglia che riempisse quel vuoto. Ma lei si sentiva fedele al ricordo. Ogni volta la domanda era la stessa: e se tornasse? E la risposta, immancabilmente: tutto tornerebbe come prima. E questo già bastava a non prendere in considerazione l’ipotesi di un impegno con altri.
I giorni peggiori furono quelli della sua malattia: un anno, colpita da un leggero ictus, fu costretta al ricovero in ospedale per oltre tre settimane. Le sembrarono infinite. Mancare all’appuntamento quotidiano le risultava particolarmente doloroso. Se lui fosse tornato al molo a cercarla cosa mai avrebbe potuto pensare? L’avrebbe potuta accusare, a ragione, di un sentimento poco profondo, di essersi dimenticata di lui. E questo pensiero era per lei insopportabile.
Quei 20 anni erano passati quasi senza che se ne accorgesse: non che fossero mancati gli avvenimenti importanti nella sua vita, dai matrimoni dei nipoti al cambio di sede del negozio, ora molto più bello e anche più vicino a casa sua. Ma era come se le altre cose le vedesse come dietro un vetro appannato, erano sfocate, le intravvedeva appena e non riuscivano a catturare la sua attenzione. Il ricordo di lui invece era nitido come se l’avesse visto solo mezz’ora prima. Quella mattina, una delle tante mattine di Novembre, si recò come al solito al molo dove i pescatori, che ormai la conoscevano bene, l’avevano soprannominata Gabriella, la matta del molo.
Gabriella aveva lunghi capelli bianchi ormai. Il viso ancora bello e occhi come i suoi, i pescatori giuravano di non averne mai visto in vita loro. Quella mattina un uomo distinto e alto passeggiava sul molo Ichnusa. Quando lei arrivò all’ingresso del molo riconobbe subito quella figura. Cancellò i 20 anni di attesa in un istante. Lo raggiunse quasi di corsa. L’uno di fronte all’altro, si guardarono, incapaci di proferire parola. Gabriella non si accorse nemmeno che il viso che aveva di fronte era quello di un uomo più giovane di lei di almeno 20 anni. Nella sua mente febbricitante ciò che contava era averlo ritrovato dopo tanta attesa. Lui non fu capace di spiegare che era appena arrivato in quella città, che forse lei si stava equivocando e che lo stava confondendo con chissà chi altro e che lui era lì perchè il Molo Ichnusa era il nome che il padre, sardo e funzionario della Banca d’Italia trasferitosi a Torino tanti anni prima, ripeteva continuamente negli ultimi mesi di vita consumati da una terribile malattia.




MAM

CROSTE

Che poi la vita, se guardi bene, non è che una crosta. Crosta che riveste i corpi di colori illusori, crosta sulle ferite profonde e sui piccoli dolori quotidiani, crosta sulle maschere che spesso sono incapaci di celare e che hanno necessità a loro volta di essere coperte. Sono crosta i falsi motivi che coprono le disillusioni; crosta è il buon sentimento che nasce da convenzioni che ci vogliono solidali e attenti. Crosta è il pianto trattenuto, crosta le parole non dette. E crosta dura e ruvida è il ristagno della vita senza più verità, senza l'accettazione dei limiti, senza purezza.

MAM

martedì 10 dicembre 2013

LA META' DEL NIENTE

Come ogni lunedì, dalle otto del mattino, nella Piazza dei Caduti il mercato si riempì di banchi colorati e gazebo traballanti, fissati con corde sospese da un palo della corrente elettrica all'altro. 
Frutta e verdura, abiti usati, divise militari di soldati sconosciuti, chincaglieria di ogni genere invadeva la piazza occupando ogni spazio utile, in attesa che uomini e donne arrivassero a fare scorta di quanto necessario. 
Il lunedì era sempre un giorno insopportabile per Angela. Il suo, unico nel paese, era un emporio dove si potevano reperire prodotti di ogni genere. Le merci arrivavano ogni settimana da Cagliari, alcune acquistate secondo il gusto personale della proprietaria, altre su ordinazione. Andavano dagli ingredienti per i dolci sardi, sino alle ciabatte di plastica per uomo. Angela conosceva a memoria le abitudini dei suoi compaesani e prevedeva le necessità: sapeva quando ordinare le maglie di lana e quali modelli le avrebbero richiesto, conosceva i gusti e le necessità degli uomini per l'abbigliamento da caccia e ricordava a memoria i compleanni dei clienti più fedeli per rifornirsi di candeline, palline argentate e zucchero a velo per la glassa delle torte. 
Angela era zitella. Questo era l'aggettivo sprezzante che in tante pronunciavano quando la negoziante aveva le paturnie e mandava al diavolo le donne incontentabili che prima ordinavano e poi non ritiravano la merce perchè non soddisfatte. Essere zitelle in un paesino come quello era una colpa grave. Soprattutto perchè donne meno attraenti di lei avevano trovato marito. 
Angela ogni lunedì diventava insofferente. Il negozio vuoto, le ore della giornata che non passavano mai, erano per lei qualcosa di esasperante.
Però quel lunedì Angela era stranamente serena. Si era svegliata di buonumore. Aveva raccolto i capelli in modo accurato, si era concessa l'apertura con un po' di ritardo e aveva deciso di sistemare il negozio approfittando della calma cui andava incontro in quella giornata. 
La sera prima aveva incontrato un uomo, un forestiero, mai visto prima in paese. Mentre rientrava a casa l'uomo l'aveva guardata e salutata con un breve cenno del capo e un sorriso. 
Un uomo distinto, perfino elegante, aveva pensato. Si ricordò che le avevano parlato della vendita della farmacia ad un signore di Nuoro. Collegò , non sbagliandosi, le due cose. 
Maria Mureddu entrò nel negozio verso le 11.30. Doveva ritirare degli ami per una canna che servivano ai figli per la pesca nel lago vicino al paese. Chiacchierarono a lungo sulla malattia del padre di Angela e della necessità di nuove viste mediche a Cagliari. Fu Maria a parlare per prima del nuovo farmacista. Raccontò ad Angela che era vedovo, molto ricco e si diceva anche molto a modo e di buon cuore. 
Angela da quel momento non fece che pensare a questo inaspettato regalo del destino. Ricordò il sorriso dell'uomo e si convinse che quel gesto fosse sì di cortesia ma che probabilmente anche lui fosse rimasto colpito dalla sua persona. 
Con la scusa delle medicine per il padre prese a recarsi quasi ogni giorno in farmacia. Arrossendo ogni volta che vi metteva piede e cercando di trattenersi più a lungo possibile, chiedeva ed otteneva consigli per curare quel povero uomo che pareva avesse ogni tipo di malattia. 
Un collirio per gli occhi, una pomata per le piaghe, dei cerotti per una ferita provocata incidentalmente...i pretesti non mancavano e passarono lunghi mesi in cui arrivarono ad un livello di confidenza tale che presero a darsi del tu. 
Angela aspettò con ansia e una certa eccitazione un invito, una gesto galante da parte dell'uomo, una parola che mostrasse in qualche modo l'interesse che aveva. 
Passarono altri mesi, i rapporti tra i due divennero confidenziali, ma Severino il farmacista mai si preoccupo' di andare oltre quella piacevole amicizia che aveva instaurato con la donna. 
Due giorni prima della festa di S.Isidoro Angela decise di sospendere le visite in farmacia. Voleva rendersi preziosa agli occhi di Severino, come aveva letto in alcuni romanzi far capire che aspettava un passo, uno qualsiasi per mutare quella situazione che diveniva imbarazzante e che faceva circolare numerose e rumorose chiacchiere in paese. 
La storia aveva fatto giri larghi, qualcuno li vedeva già come amanti clandestini, altri ritenevano che non ci si mettesse d'accordo per motivi economici e di appartenenza a classi sociali differenti. Ad ogni buon conto, la storia animò la vita monotona del paese e tutti aspettavano da un momento all'altro di vederli passeggiare a braccetto per il corso a conferma che l'affare era stato finalmente siglato.
Severino non cercò Angela. E Angela trascurò il negozio, persa dietro mille pensieri. Scordava di ordinare le merci, non sistemava più gli scaffali e la gente inizio' a disertare l'emporio andando ad approvvigionarsi nei paesi vicini e al solito mercato settimanale. 
Prima di Natale, Angela distrutta dal dolore di un amore mai nato, prese il coraggio e decise di andare in Farmacia. 
Severino fu sorpreso di quella visita. Sorpreso e imbarazzato. Molte donne del paese avevano chiesto insistentemente di Angela mentre acquistavano farmaci, lasciando intendere che se aveva buone intenzioni di sicuro avrebbe avuto una risposta positiva perchè Angela, a parer loro, lo avrebbe voluto come consorte. 
Severino non rispose mai e si limitò a sorridere e a minimizzare l'amicizia tra i due. 
Angela entrando in farmacia fu diretta. Con le lacrime agli occhi chiese perchè non l'avesse mai cercata. Perchè non avesse addirittura voluto la sua amicizia se non una relazione. 
Severino, con gli occhi bassi, non rispose subito. Raccontò ad Angela con parole semplici della sua malattia, dei pochi mesi di vita che gli restavano. Della volontà di non renderla vedova dopo pochi mesi di matrimonio. Che sì, l'amava ma non poteva e non voleva esserle di peso in quel modo. 
Angela pianse ancora. Non aggiunse più una parola. Andò ad aprire il negozio, lasciò la serranda abbassata a metà. Sistemò gli scaffali e mise a posto tutte le merci. 
La vita a metà. Quella che nessuno vorrebbe mai vivere. Una vita insignificante e fatta di giorni tutti uguali. Era meglio questo che pochi mesi da sposa felice o infelice che fosse? Pensò agli anni della sua giovinezza, scanditi dalle feste dei santi e da quelle del popolo. Pensò allo specchio che le restituiva costantemente un'immagine scollata di ciò che sentiva di essere dentro, nel profondo. Non si era mai sentita donna, mai desiderata e mai voluta. La negoziante del paese. La zitella. La donna che viveva per soddisfare i bisogni degli altri. Eppure aveva sentito il cuore battere per quell'uomo. Aveva immaginato di mangiare seduta al tavolo guardando negli occhi qualcuno. E avere mani sui suoi fianchi snelli e sul viso, sentire la carezza delle parole pronunciate solo per lei.
Tornò alla farmacia, con le gambe che le tremavano. Si fermò sulla porta e disse a Severino "Chiudi la farmacia...andiamo". 
Severino non ubbidì. Si rese conto che ad Angela non interessava il futuro, visto che non aveva mai cominciato a vivere prima di quel momento. E malgrado avesse letto negli occhi della donna quella risolutezza e quel fuoco che implorava una scelta, non cambiò idea. 
Angela si incamminò lungo il viale, incurante della curiosità della gente che non l'aveva mai vista andare per le vie del paese a quell'ora. Sedette sul muraglione vicino alla chiesa, svuotata,  senza poter immaginare e senza poter pensare ai giorni da lì in avanti, con la bruciante rassegnazione di chi non avrebbe mai mescolato, come aveva creduto, la propria liquida e insignificante vita con quella di un uomo. Lei, la metà del niente.
MAM

lunedì 9 dicembre 2013

LA VORAGINE



Forse non ho capito niente. Perché a dimenticare ci vuole tempo, mi dicevo. Cancellare si può. Il tempo aiuta. Lo dicono tutti. E così ho lasciato scivolare i minuti, le ore, i giorni ed infine i mesi. Non sento più il dolore. E’ così. Il silenzio, l’assenza sono ormai abitudine. Non piango più. E ho pensato alla voragine. Si, la voragine della quale abbiamo parlato tante volte anche con te. A scavarla ci hanno pensato in tanti. Hanno lavorato dentro me, ciascuno con i propri mezzi, valutando di volta in volta di quanto si dovesse allargare, come renderla instabile e pronta al cedimento. Io di mio ho messo il meno possibile. Sono stata a guardare. Ad ascoltare. Ed ho imparato che non sono mai stata all’altezza. Qualcuno mi voleva forte, qualcun altro debole. C’era chi mi voleva più sensibile, secondo altri ero troppo sensibile. Parlavo troppo oppure ero poco loquace. Non dovevo piangere ma, alcuni mi accusavano di avere un cuore di pietra. Bisognava crescere. Ma altri obiettavano che non ero mai stata bambina.
Una voragine enorme. Camminavo sull’orlo e pensavo che non mi sarebbe bastata questa vita per riempirla. E riempirla di cosa soprattutto? Amore, gioia, felicità? Oppure di occasioni speciali, di piccoli momenti importanti? E dopo averla riempita, mi dicevo, posso immaginare che si diventi finalmente diversi? Appagati? Pensavo a questo, stamattina, mentre davanti allo specchio mi truccavo il viso. Le rughe. Quante.
Ho pensato che finalmente non mi importava più niente della voragine. Ho iniziato a sentire che il tempo stava scivolando via, incurante delle mie ansie e delle mie aspettative.
Di tutte le vite possibili mi è stata concessa questa. Ed io, ho pensato, ancora non ho cominciato a viverla.
Sono uscita di casa. Ho chiuso la porta alle spalle. Ho scansato la voragine, ho respirato a fondo e sono scesa in strada. Porto a spasso le rughe ho pensato. E comincio a vivere.

MAM